Il ricordo di Mons. Volta

Belgioioso, chiesa parrocchiale
Martedì 10 febbraio 2004 ore 15,15

Omelia di mons. Giovanni Volta al funerale di  Don Leopoldo Cerabolini, morto domenica 8 febbraio alle ore 10,30

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Lettura al Vangelo: Mt. 25,31-46

Troppo presto per noi

Noi speravamo. Qualche anno ancora almeno. La Casa dell’Accoglienza aveva molto bisogno di lui, della sua paternità, delle sue cure, di uno che tenesse accesa in mezzo a mille difficoltà lo spirito di dedizione e la speranza e sorridesse ai bambini che trepidanti si affacciavano alla vita, che incoraggiasse ragazze poste come d’improvviso davanti al dono e all’impegno di una nuova esistenza e che per questo si sentivano come smarrite.

Ma il Signore ha disposto le cose in modo diverso e don Leo, che per amore di Dio si era buttato in quella grande avventura, seppe abbandonarsi nelle mani di Colui al quale tanti anni prima aveva consacrato tutta la sua vita. Me lo espresse questo anche visivamente quando mi porse le mani per l’unzione del Sacramento degli infermi il 22 ottobre scorso.

Pure di recente sono venuto a trovarlo qui a Belgioioso. Non era più in grado neppure di parlare. Parlavano però i suoi occhi e un accenno di sorriso nel quale mostrava la sua gioia di vedermi.
Sì, perché prima della casa, lui, la sua persona, era simbolo dell’accoglienza.

Ora che era a letto ammalato, in una stanza che dava immediatamente sul giardino, più di una volta ho visto una frotta di bambini, vivaci come un vento di primavera, che entravano per fermarsi subito stupiti a guardarlo, per poi rispondere con gioia al suo sorriso accogliente, pur inchiodato nel letto.
Per essi era il papà, il nonno che non avevano potuto avere accanto nella loro vita.

La sorgente della sua dedizione

Ma perché questa dedizione operosa verso bambini che non erano suoi, per ragazze che gli procuravano spesso tanti grattacapi, per un impegno non sempre capito, che non gli otteneva dei guadagni, ma delle spese, fino ad impegnarvi tutto ciò che possedeva?
Qualcuno nella storia ha pensato che l’amore verso Dio distolga dall’amore verso l’uomo. Nella realtà l’autentico amore verso Dio provoca e alimenta l’amore verso l’uomo, lo rende tenace, tenero, capace di sacrifici fino al dono di sé, in grado di prendersi cura dell’uomo, anche quando è ferito dall’abbandono, dalla malattia, quando si presenta con l’impotenza di un neonato.

Ciò spiega come all’interno della cura spirituale di una grossa parrocchia, com’è Belgioioso, sia nata nel suo cuore prima che nei muri la Casa dell’Accoglienza, sostenendo così l’apertura della Diocesi verso la vita nascente, quale segno tangibile del Verbo che si è fatto carne per la salvezza di ogni uomo, incominciando dai più poveri, dai più oppressi.

Nel suo alloggio che, dopo aver lasciato la parrocchia, volle fosse non solo in mezzo ai bambini e alle ragazze da lui accolte, ma anche come il loro, e con un segno particolare però: la presenza di una piccola cappella con l’Eucaristia, il segno e la presenza del dono che ispirava e dava forza alla sua vita, l’ospitalità di Dio.

Non aveva don Leo particolari doti di intelligenza, di cultura o di organizzazione. E tuttavia fu il “motore” che animò costantemente la Casa dell’Accoglienza, fu maestro per gli educatori, padre riconosciuto per i bambini, punto di riferimento per le ragazze madri.
C’è una scuola che viene dai libri, ma c’è anche una scuola più profonda che viene dal cuore, che Gesù ispira e nutre.
La sua preghiera, la sua preoccupazione, specialmente in questi ultimi tempi, riguardava questa scuola, voleva che essa continuasse ad animare la Casa dell’Accoglienza.
Non si trattava di un hobby o di una particolare strategia, ma di quella sorprendente trasparenza, della quale ci ha parlato il vangelo che abbiamo ascoltato e che costituirà il codice del nostro giudizio ultimo.

La trasparenza del volto di Cristo in quello dell’uomo

Quando io ero ragazzo a scuola ci esercitavamo a ricalcare le figure su fogli di carta velina.
Dio ha voluto ricalcare sul volto dell’uomo, dell’uomo ammalato, affamato, senza vestiti, abbandonato, in prigione quello del suo divin Figlio.
Questo è il segreto che muove l’amore cristiano, che è in grado di unire l’amore dell’uomo con quello di Dio.

Dirà il Signore a don Leo: ero una ragazza smarrita, e tu mi hai accolta; ero stata scacciata dai miei, e tu mi ha aperto la porta di casa tua; ero un bambino ammalato, solo, e tu ti sei preso cura di me; ero senza casa e tu mi hai dato la tua; nessuno più mi sorrideva e tu mi hai sorriso e mi hai amato.

Allora dirà don Leo a Gesù: ma quando, Signore, avvenne tutto questo, nella mia vita non ho mai avuto una “visione” di Te o di tua Madre.
E il Signore gli risponderà: tutto ciò che hai fatto a questi piccoli, a queste ragazze, alle loro famiglie, l’hai fatto a me.

Così l’umile vita di ogni giorno esce dall’anonimato e diventa preziosa perché ci svela il volto di Cristo anche nelle persone più sventurate e il nostro amore verso di Lui giunge a trasformare l’intera nostra esistenza.
Ne è un esempio significativo anche il testamento che egli scrisse il 4 agosto 1988 alla vigilia di un suo pellegrinaggio a Lourdes. Una pagina tutta incentrata sul cielo della sua vita, riprendendo una espressione di santa Bernardetta. Un cielo, egli scrive, ora sereno e luminoso, ora imbronciato, ora buio pesto. Ma sempre, egli sottolinea, “cielo di Dio”. “Cielo sotto il quale Dio volle operare”, e per questo si dichiara infinitamente riconoscente, pur ammettendo le sue numerose debolezze.

Un prete contento

Dapprima nel suo testamento egli scrive di don Leo come se egli fosse un altro. Con questo distacco ricorda le diverse tappe della sua vita: al Collegio sant’Agostino, all’Oratorio san Luigi, curato al Carmine, a Binasco, parroco a Copiano e poi a Belgioioso.
Riconoscendo le proprie insufficienze giunge a scrivere: “Povero don Leo! Quanto purgatorio dovrà fare!”.
Ma poi, come un aquilone che vola sotto il cielo e improvvisamente s’impenna, si mette a scrivere in prima persona ed esclama: “Oggi posso dire che un bel cielo è la Casa di Accoglienza”.

Lì la sua vita ha trovato la propria espressione più alta e invoca un aiuto, quello dei suoi bambini: “Vorrei che, presentandomi al tribunale di Dio, qualcuno dei bambini, ai quali ho voluto un mondo di bene, esprimesse anche un solo vagito in mia difesa”.
E chiude con un’espressione, quasi un grido, che parrebbe estraneo a tutto il testo, ma che di fatto rivela l’anima della sua vita: “E’ meraviglioso essere prete! Dio mi perdoni se io ho osato chiedergli un dono così grande”.

Vorrei che questa esclamazione detta al compimento di una vita, e perciò dopo una lunga esperienza, risuonasse forte in tutta la Diocesi, fosse sentita particolarmente dai giovani, così come la costante testimonianza di don Leo nell’accogliere, nel proteggere, nel servire la vita umana anche nelle condizioni della più grande debolezza.

Un grazie nella consolante speranza cristiana

Non posso però non ricordare in questo momento tutti i collaboratori che gli furono al fianco con abnegazione e fiducia, i suoi familiari che sempre l’hanno sostenuto nella sua dedizione, e in particolare la sua mamma che gli fu sempre vicina nel lavoro e soprattutto con lo stesso suo cuore nei giorni della gioia e in quelli della sofferenza.
Come nel giorno del Venerdì Santo l’attesa della risurrezione del suo divin Figlio consolò il cuore di sua madre, Maria, così la stessa attesa colma di speranza consoli il suo.

Mons. Giovanni Volta